Dialogo con Clet Abraham

E’ difficile che non vi siate mai imbattuti, vagando nel centro di Bologna, Milano, Torino, Firenze, Londra, Parigi o Madrid, in qualche cartello stradale un po’ strano. Segnali di “strada senza uscita” che diventano una croce ai cui piedi una pietà michelangiolesca prende forma dalle figure antropomorfe che vediamo spesso sui nostri cartelli. Omini che si portano via la barra bianca del divieto d’accesso e reinterpretazioni dell’uomo vitruviano. Tutto porta la firma di Clet Abraham, artista bretone trasferitosi a Firenze, dove si trova il suo studio, a pochi passi dal Ponte Vecchio.
Lavorava già come artista prima di scegliere di uscire in strada. Questo, insieme al particolare modo di intendere il suo lavoro, spiega perchè Clet è uno dei pochi street artist che lavorano a volto scoperto. Ma l’intento di Clet è diverso da quello dei “colleghi”: tenta di rimanere tanto vicino alla street art quanto lontano dal vandalismo. I suoi adesivi infatti si possono staccare. Un vandalismo politically correct.
E’ figlio dello scrittore Jean-Pierre Abraham, la cui storia sembra essere il soggetto di un romanzo ottocentesco. Jean-Pierre, appena ventitreenne, per agevolare il suo lavoro di scrittore, accettò l’incarico di guardiano del faro di Ar Men, all’estremità della Chaussée de Sein, la punta della Bretagna. Uno dei fari più estremi del mondo a causa del suo carattere isolato e le enormi difficoltà di costruzione e manutenzione da parte del personale.
“Armen” è l’opera partorita durante quegli anni (1959-1963), il suo lavoro più importante. Dal testo è stato tratto nel 2004 un adattamento teatrale curato da Éric Ruf, attore e scenografo della Comédie-Française.
E’ proprio dal faro di Ar Men che in qualche modo inizia la storia di Clet:

“Fu costruito su una roccia che appare solo una o due volte l’anno, quando le maree sono molto basse. Vennero impiegati molti anni per posare le prime pietre.
Lì mio padre conobbe mia madre. In realtà sul faro non è mai salita una donna. Entrare sul faro era una esperienza che riguardava solo i guardiani. Ci fu però una occasione in cui il faro vide visite dall’esterno: un gruppo di giornalisti vi arrivò per girare un reportage e filmarono anche mio padre. Mia madre, che a quell’epoca abitava a Parigi, lo vide alla televisione. Gli scrisse e così si sono conosciuti.”

La vocazione artistica ed il modo di vivere di tuo padre quanto hanno influenzato il tuo percorso?

Sicuramente avendo avuto un padre così, con cui ho vissuto poi per qualche anno su un’isola deserta (l’isola di Penfret, nell’arcipelago delle Glénan, Bretagna, dove Jean-Pierre fu guardiano dal ’68 al ’70. ndr), ha contribuito a imprimere in me l’amore per la libertà.
Il percorso artistico non puoi anticiparlo. Io seguo delle intuizioni, delle sensazioni, ed una molto forte è proprio questa necessità di libertà. Può essere una chiave di lettura del mio percorso di vita. Nell’arte si può trovare un po’ di questo spazio libero. A dei prezzi altissimi, è chiaro.

Uno spazio così importante da dover essere “rubato” se necessario, come quella volta che hai appeso di nascosto un tuo autoritratto nel museo di Palazzo Vecchio.

E’ una critica alla chiusura dei musei, l’arte non è per me un oggetto da staccare così tanto dalla realtà quotidiana, io vorrei un’arte più dissacrante, in cui si toglie la cornice, il piedistallo ed ognuno deve giudicare se è arte, nudamente.
Il museo deve essere un posto vivo, un posto dinamico.

Come la strada. infatti hai portato i tuoi lavori soprattutto in strada, sui cartelli stradali che possiamo vedere in tante città in giro per l’Europa. In che modo è avvenuta la conversione da “artista canonico” a street artist?

La street art è un’altro strumento molto rappresentativo di libertà.
Per me in questo caso l’arte è un mezzo, non una finalità. E’ il mezzo che mi permette di arrivare alle cose che per me hanno un senso. La mia esistenza ha senso nel momento in cui mi sento di migliorare in qualche modo il mondo nel quale vivo. Cos’è “il meglio” può essere un argomento molto discutibile ma credo che dare libertà all’individuo e spazio alla libertà di pensiero si possa considerare “meglio”. Di sicuro il meglio non è l’ordine. L’uomo è fatto di ordine quanto di disordine. Quindi al limite è l’armonia. Questi sono gli elementi intorno a cui lavoro.

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